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Donnafugata: il sogno e la memoria

Ultima modifica 3 marzo 2018

A volte i sogni non muoiono alle prime luci dell'aurora: Donnafugata è un esempio presente nel tempo. 
La dimora di Donnafugata, impropriamente definita "castello", fù, nella volontà e per decisione dei suoi realizzatori, una splendida casa di villeggiatura.

Agli inizi del XIX secolo il barone Francesco Maria Arezzo, barone di Donnafugata cominciò ad accrescere il patrimonio abitativo del primitivo nucleo delle case padronali all'interno del feudo. Ecco quindi come cominciò a prendere corpo il sontuoso edificio che nel sogno del figlio Corrado si materializzò in quanto oggi ancora sopravvive. Il giovane Donnafugata, cresciuto negli studi presso i padri Filippini a Palermo, città di nascita della madre Vincenza De Spucches Brancoli, continuò il progetto del padre ampliando e lasciando vuote soltanto la grande loggia del prospetto frontale. 
Donnafugata divenne allora il "buen retiro" del senatore Corrado, un luogo ove sogno e memoria si fondevano coniugando il verbo più gradito: trovar pace. Il barone Corrado, pur avendo attraversato un cursus honorum molto ampio (dagli incarichi borbonici al seggio senatoriale, alla sindacatura di Ragusa, al seggio di Consigliere provinciale a Siracusa) ebbe una vita familiare molto travagliata e funestata dalla scomparsa ante diem della figlia Vincenzina, e, a poca distanza, anche della consorte.

Per certi versi il barone ebbe sempre presente la precarietà della vita e idealmente ripeteva a se stesso l'adagio biblicò "Vanitas vanitatis et omnia vanitas". Non è un caso infatti che, in un angolo del parco di Donnafugata, fece costruire una sorta di cenotafio con due tombe fittizie contornate da folti cipressi. La sua preoccupazione per la vita post-mortem si evidenzia inoltre nella cappella funeraria che fece costruire accanto alla chiesa di S. Francesco all'Immacolata a Ibla, donando alla costruzione religiosa il luogo sepolcrale che ospita la sua persona, la moglie e la figlia.

Nella vicenda del castello di Donnafugata dobbiamo precisare che si sono sovrapposte in esso ben tre mani: il barone Francesco, il figlio Corrado e la nipote Clementina, cui si deve il completamento della loggia frontale e la torre quadrata di rinforzo sul lato nord-est.

E' necessario a questo punto chiarire un poco la successione dei personaggi donnafugaschi per capire meglio lo svolgimento dei fatti. Il senatore Corrado aveva avuto una sola figlia, Vincenzina, sposata col catenese Paternò Castello; un matrimonio di breve durata perchè il consorte abbandonò la moglie e le due figlie Maria e Clementina. La lunga malattia di Vincenzina e la sua solitudine imposero ai genitori di curarsi delle nipotine, cura che continuò a maggior ragione dopo la sua scomparsa. Maria andò in sposa al messinese Marullo di Condojanni, e morì tragicamente nel sisma messinese del 1908, senza lasciare figli.

La sorella Clementina invece si sposo' col diplomatico francese Gaetan Combes de Lestrade e visse per molto tempo a Donnafugata col marito. I due, dopo una rocambolesca fuga d'amore da Donnafugata, si sposarono a Malta e vissero un'intensa stagione di vita coniugale. Dalle carte sopravvissute si puo' notare come scrivessero a mano alterne un manoscritto, ennesima riprova del loro affiatamento. 
La loro vita, intessuta di grandi viaggi in Europa e di soggiorni in località amene d'Italia, fu anche vissuta tra Ibla e Donnafugata. Qui infatti il francese diede luogo alla seconda anima del castello creando nel settore sotto la grande torre circolare un angolo di Francia. Realizzo' delle raffinate stanze ricoperte da boisserie, un impianto di termosifoni a legno e tante deliziose stanze da letto, compresa quella azzurra sotto la torre. Il Lestrade contribuì pure ad arricchire la già consistente biblioteca del castello aggiungendo collane di testi scientifici sull'agricoltura e sull'economia politica, oltre a studi sui più importanti scrittori europei.

In altri termini Donnafugata continuava a vivere: era un luogo della memoria che abbracciava il presente pur nella più grande tradizione del passato.

Come tutti sanno, il termine "Donnafugata" deriva dall'arabo "ain-as-jafaiat" (fonte della salute) che fu sicilianizzato in "Ronna Fata" oppure "Ronna Fuata" e poi inutilmente tradotto in italiano col termine noto. In realtà in una ex tenuta del bene degli Arezzo, in contrada Purcarie, esiste ancora, nella vallata sottostante il castello, una piccola sorgente d'acqua molto leggera. E non è un caso che nel territorio ibleo ci siano varie località contrassegnate col prefisso "Ronna-Donna", e in ognuno di esse c'è comunque una scaturigine d'acqua. Anche nella memoria ragusana del Tomasi di Lampedusa ritorna prorompente il termine "Donnafugata" unico esempio il nostro, che nel romanzo è collocato a S. Margherita Belice, luogo carissimo all'autore, per certi versi somigliante al nostro luogo. 
Il castello conta di ben 144 vani e si estende su una superficie di 2500 mq, mentre l'attiguo parco ha un'estensione di circa 12 ettari. 
Il fabbricato si compone di una base usata per locali di deposito, la cucina, l'ex teatro, la chiesa, mentre a primo piano esistono le zone della foresteria, la zona rappresentanza ed i salotti, le stanze del quotidiano.

Antichi luoghi comuni hanno contorniato la vita di Donnafugata, tra cui primeggia il grande falso storico della presenza in esso di Bianca di Navarra che al tempo dell'acquisizione del feudo, 1645, avrebbe compiuto circa trecento anni. Eppure accompagnatori sprovveduti o presunti uomini di cultura indicarono due ambienti del primiero caseggiato come l'appartamento di Bianca.

Nel castello rimasero proverbiali certi angoli su cui, oltre alla rinomanza in se, si è stratificata una patina di fascino accresciutasi nel tempo. 
Il riferimento va alla grande Sala degli Stemmi, sulle cui pareti si snoda tutto il blasone di Sicilia, la veranda a ponente per l'inverno, la stanza detta della musica e i salotti delle donne. Sulla parete di quest'ultima esiste pure la raffigurazione dell'Orto Botanico di Palermo, mentre sul soffitto si snoda­no pigramente le fasi dello zodiaco. Un cenno a parte merita la cosiddetta "Stanza del Vescovo", un elegante ambiente con un letto in bronzo e tarta­ruga ad una piazza e mezza, ed una raffigurazione femminile sulla volta che induce a eteri pensieri. Nella foresteria le stanze si susseguono a corridoio, ma ognuna ha un suo servizio autonomo ed un balcone che immette sul grande terrazzo da cui si può accedere alla villa.

Delicatamente profumata da essenze di lavanda dal giardino francese sottostante si offrono al visitatore la biblioteca e l'antibiblioteca su cui persi­no l'antenata col teschio sembra indulgere ad uno strano ma confortante sorriso. 
Ma Donnafugata non finisce nei suoi ambienti o nelle logge in gotico-veneziano, essa vive nelle eleganti sospensioni in vetro, nei salotti sinuosi, nei molti letti di vario materiale che si nascondo in stanze ombreggiate da merlettate mantovane. La luce sembra quasi rincorrere il buio in ognuno degli ambienti che il tempo ha impreziosito di storia e di memoria. Immensi tappeti o pavimenti di asfalto assorbono quasi il passo delle persone, come se il tempo non dovesse essere disturbato da chicchessia. 
Una porzione di secondo piano è scarna e disadorna, perché ad essa mancò l'ultima mano d'affetto dei suoi abitanti, e così tutto è muto in attesa di qualcuno.

La piccola chiesetta si staglia oltre l'ingresso nella sua essenzialità archi­tettonica, scossa soltanto dall'altare in misto e dalla cornice dorata che racchiude la Sacra Famiglia. 
Nel grande cortile con quattro uscite il basolato in calcare duro fa di se bella mostra, biancheggiando ad ogni tipo di luce che lo investe. 
Nell'uscita verso il parco due sedili in asfalto si adagiano sui lati con la finta spalliera disegnata sulla parete. Da qui si accede al grande parco che all'inizio attorno al castello è ombreggiato da ficus bengalensis la cui ciclopica consistenza ne fa giganti della natura. Sotto la loro ombra si staglia la grande scalinata che immette nel grande terrazzo custodita da due leoni adagiati e chiusa da due piccole sfìngi che continuano a presentare ambigui sorrisi. 
Da qui si apre il grande viale di basso che conduce alla neoclassica costruzione del "Coffee House". un luogo preposto alla ristorazione da diporto nei pomeriggi estivi. Esso si presenta con delle colonne coniche nel prospetto, ancor più bianche nello sfolgorare parietale del rosso pompeiano; dinanzi alla costruzione una fontana con spruzzo racchiuso da una decorazione fittile con due bimbi sopra una tartaruga. Durante il periodo bellico degli anni quaranta, il castello fu usato come luogo ospedaliero dagli uomini della Luftwaffe, che ripristinarono per il pubblico civile l'uso del caffè all'aperto.

Nel parco esistono tre sezioni principali: il giardino alla francese attorno alla costruzione, il giardino all'inglese più cupo e denso di conifere, ed una parte coltivato ad agrumi, ossia il classico "jardinu" siciliano. Vi si trovano diecine e diecine di fontane che continuano a chiacchierare grazie alle grandi raccolte d'acqua piovana dette appunto " ghiebbie". Molti viali e molti incroci erano costellati da vasi in terracotta della rinomata ditta calatina dei fratelli Vaccaio. Inoltre vi si trovano vari scherzi per la gioia degli ospiti realizzati dai fratelli Alfano di Modica, estrose situazioni di un gusto ormai lontano nel tempo. 
La cappelletta col monaco era un appuntamento rituale dei visitatori, che sempre rimanevano sorpresi quando la molla sotto il terzo scalino faceva aprire i battenti su cui erano fissate le braccia del barbuto ecclesiastico. 
Sopra le finte collinette, si beava al sole la cupoletta neoclassica degli innamorati, con un sedile di ghisa a due posti sotto una volta stellata entro cui sorrideva una falce di luna. Sotto le collinette delle micro caverne si aprivano adornate di vere stalattiti e sugheri che conferivano un cupo fascino in contrasto con una solarità dai toni eccezionali. Qui era collocato il pupazzo che inghiottiva le palline restituendole dal retro, mentre erme sorridenti si delineavano nelle fessure di luce.

L'ultima curiosità era il sedile a emiciclo, ornato da profumato gelsomino, sul cui schienale si aprivano all'improvviso minuscoli spruzzi d'acqua che colpivano gli ospiti. 
Tra il giardino all'inglese e la zona delle grandi aiuole ampiamente si stende il labirinto trapezoidale, che come forma ha eguali soltanto ad Hampton Court in Inghilterra. Il modello inglese è con le siepi, questo donnafugasco è in muratura, e su tutti i muri si stendevano fitti roseti di roselline borboniche, che impedivano la vista. 
Ad un certo punto per il riposo dei visitatori erano allocati sedili in ghisa. All'ingresso sorgeva una piccola vasca con acqua su cui era stesa una robusta passerella in legno e accanto una guardiola con un baffuto soldato piemontese che montava la guardia. Chissà se anche questo non avesse un significato emblematico, ma sicuramente molto criptico? 
Nell'ultima aiuola prima del giardino d'agrumi, alla vicina ombra di un filare di palme c'era la statua del poeta Anacreonte con l'epigrafe in latino "Anacreonti, siculo poetae", mentre di fronte c'era un piccolo busto del senatore Donnafugata. A proposito di statue va citata anche la statua del canonico che legge il breviario all'ombra di un carrubo, ma anche codesto è stato offuscato e offeso dal tempo e dagli uomini.

Le varietà botaniche del parco costituiscono una splendida forma di coesistenza arboricola, perchè ancora possiamo leggere le varie pagine di un libro naturale che si presentano piene di una strana vitalità. Con grande perdita è stato annullato il settore delle serre sul lato Sud, ove un tempo delicate gardenie o azalee facevano coppia con gli effimeri ma sognanti fiori delle cactacee lì riunite. 
C'era uno splendido gusto di saper fruire dei fiori duraturi e di quelli che nello spazio d'un sorriso concludevano la loro fragile esistenza. 
Al parco erano aggiunti una serie di cancellate in ferro battute per gli accessi esterni: essi sono ormai chiusi e sopra pietre circostanti sono rimaste indelebili lacrime di un pianto di ruggine che il tempo non ha cancellato. 
Di particolare interesse sono le pavimentazioni dei viali del parco: sono realizzati con l'antica tecnica di mescolare pietrame sminuzzato (sopra uno strato di massi) con materiale tufaceo, bagnato e poi rullato con vari passaggi.

Nella zona del giardino alla francese c'erano grandi disegni di aiuole di lavanda entro cui in primavera sbocciavano narcisi e tulipani rossi dall'incredibile effetto. E proprio lì, nel lato a ovest, una fila di palme ed una fuga di vasi incominciavano i purpurei tramonti che conferivano a Donnafugata il sapore di un sogno. 
Se volessimo cercare tra le pieghe del mondo donnafugasco, penso che troveremmo tanti sogni nascosti in un dialogo mai concluso tra gli abitanti-amanti di Donnafugata e quanto essi hanno realizzato. 
L'affetto per una persona o per un luogo non ha bisogno di didascalie, basta soltanto leggere i gesti compiuti e sarà tutto chiaro. 
Il luogo e la memoria si fondono a Donnafugata tra le ali di un sogno vissuto ma che tocca ora ai contemporanei saperne valutare l'entità e sforzarsi quindi di amarla, come una signora elegante che percepisce persino un'ammiccare di ciglia, e sa ancora sorridere.

Gaetano Cosentini